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martedì 11 settembre 2012

Le origini della fotografia










La fotografia nasce dall’osservazione, dallo studio e dall’applicazione di un fenomeno fisico e di un fenomeno chimico, legati rispettivamente al comportamento ed all’azione della luce.


Quando un raggio luminoso entra in un luogo buio attraverso un’apertura di dimensioni molto piccole, proietta all’interno l’immagine rovesciata della realtà esterna; tale fenomeno, comunemente detto “della camera oscura” era noto dall’antichità, tanto che alcuni testi fanno iniziare la storia della fotografia da Aristotele, uno dei primi a compiere osservazioni ed esperimenti specifici sul comportamento dei raggi luminosi.
Subito dopo il Mille il fenomeno viene studiato e descritto da eruditi arabi e nella seconda metà del tredicesimo secolo dal fisico inglese Roger Bacon. Nel quattordicesimo secolo, prima il messinese Francesco Maurolico (Photismi de lumine et umbra) e poi Leonardo da Vinci (nella raccolta di scritti conosciuta come Codice Atlantico) spiegano il funzionamento della camera oscura e parallellamente quello dell’occhio.


Nello stesso periodo hanno inizio gli studi di ottica finalizzati alle applicazioni sulla camera oscura.
Quest’ultima viene realizzata in varie forme, la più comune delle quali è una specie di scatola costruita in legno, dotata su un lato di un minuscolo foro di ingresso della luce praticato in un sottilissimo foglio di metallo (foro stenopeico) e recante sul lato opposto un vetro smerigliato su cui osservare l’immagine.
La camera oscura è diventata uno strumento: viene utilizzata nel Rinascimento per proiettare, su pareti o su tele, le tracce che servono per realizzare disegni o dipinti.
Ne fa uso un pittore come Raffaello e nei secoli successivi la utilizzeranno altri artisti (Canaletto, Vermeer) e in genere coloro che si trovano nella necessità di riprodurre paesaggi e prospettive nella maniera più fedele possibile.
Lo scienziato e filosofo italiano Girolamo Càrdano  verso la metà del 1500 applica alla camera oscura una lente biconvessa  in sostituzione del foro stenopeico, in modo da concentrare i raggi luminosi e migliorare in tal modo nitidezza e qualità dell’immagine.
Dopo pochi anni (1569) Daniele Barbaro, professore dell’università di Padova, dimostra che l’applicazione di un diaframma di diametro inferiore a quello della lente migliora la qualità dell’immagine.
Sempre a proposito di lenti va ricordato che nel 1609 Galileo progetta e costruisce il telescopio.
Nel 1646, ad Amsterdam, Athanasius Kircher costruisce una camera oscura gigante da disegno.
Le sue dimensioni sono tali che l’artista ed un suo aiutante possono lavorarvi dentro.
Kircker intuisce poi che il fenomeno della camera oscura può avvenire anche in senso opposto, cioè in proiezione, e ha l’idea della cosiddetta “lanterna magica”, un proiettore di immagini abbastanza simile a quello che sarà l’ingranditore per negativi.
Un ulteriore perfezionamento è opera, nel 1657, di Kaspar Schott, che costruisce una camera oscura composta da due cassette scorrevoli una dentro l’altra, dotate cioè di una possibilità di movimento che consente di variare la distanza fra la lente ed il piano di proiezione e quindi di mettere a fuoco.
Questo sistema continuerà ad essere utilizzato anche dopo la nascita della fotografia e sarà superato soltanto dall’introduzione del soffietto nella seconda metà del 1800.
Prendiamo in considerazione il fenomeno chimico di cui si è detto all’inizio.
Era già noto agli alchimisti del tardo Medioevo che alcune sostanze annerivano o comunque cambiavano di colore in determinate situazioni.
Il fenomeno però risultava di difficile gestione perché non erano state chiarite le condizioni in cui il medesimo si verificava.
Ancora nel corso del XVII secolo, il noto scienziato irlandese Robert Boyle riteneva che l’annerimento che il clorato d’argento subisce in certe situazioni fosse determinato dall’esposizione all’aria e non alla luce.
Il primo a verificare con metodo sperimentale che l’annerimento di certe sostanze era dovuto alla loro fotosensibilità fu il chimico tedesco Johann Heinrich Schulze, professore di anatomia all’università di Altdorf.
Nel 1725 riempita una bottiglia con un composto di gesso, argento e acido nitrico si accorge che l’annerimento si produce soltanto sul lato esposto alla luce.
A scopo di verifica e di conferma applica alla bottiglia sagome ritagliate nella carta, oppure foglie, osservando che al momento della loro rimozione è apparsa sul composto la sagoma chiara dell’oggetto applicato.
Naturalmente l’immagine della sagoma è temporanea, in quanto l’esposizione alla luce ne provoca in breve tempo il progressivo annerimento.
Alcuni anni più tardi, gli esperimenti del fisico italiano Giovanni Battista Beccaria provano in maniera definitiva che il fenomeno dell’annerimento è riferibile alle sostanze che contengono sali d’argento e che quindi è quest’ultimo elemento ad essere caratterizzato dalla proprietà di essere sensibile alla luce.
Un tentativo di applicare praticamente il fenomeno della fotosensibilità per ottenere immagini viene attuato da Thomas Wedgwood, figlio di Josiah Wedgwood ed erede dell’omonima dinastia di ceramisti britannici.
Studente all’università di Edinburgo, sul finire del XVIII secolo effettua numerosi esperimenti utilizzando il nitrato d’argento per sensibilizzare dei fogli di carta ed ottenere su questi le sagome di oggetti appoggiati, in analogia a quanto già tentato da Schulze.
Realizza delle impronte chiare su carta o su cuoio, ma le stesse risultano osservabili soltanto alla fiammella di una candela in quanto la piena luce le fa inesorabilmente scomparire.
E’ costretto ad interrompere gli esperimenti a causa delle sue precarie condizioni di salute, che nel 1805, a soli trentaquattro anni, lo porteranno alla morte.
Nel 1802 il suo amico Sir Humphry Davy descrive i risultati ottenuti nel saggio Account of a Method of Copying Paintings upon Glass che viene pubblicato sul “Journal of the Royal Institution of Great Britain”.
Nello scritto viene specificato che Wedgwood non è ancora riuscito ad escogitare il metodo per interrompere il processo di annerimento, cioè per desensibilizzare la zona della carta non raggiunta dalla luce, anche se di recente l’esame di documenti facenti parte della corrispondenza dello stesso Wedgwood con James Watt ha portato alcuni a ritenere che ciò sia invece avvenuto.
Negli stessi anni, a cavallo fra il XVIII e i XIX secolo, hanno inizio gli esperimenti del francese Joseph-Nicéphore Niépce, esperimenti che si riveleranno di importanza decisiva.


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